PROLOGO

Il prologo di Giovanni è costituito dai primi 18 versetti del Vangelo. All'interno di questo testo di carattere poetico, ci sono alcune sezioni (versetti 6-8 e il versetto 15), quelle che parlano di Giovanni Battista, che hanno un andamento più prosaico e che, se lette in greco, sembrano meno ritmiche delle altre. Questi versetti sono il riferimento ad un uomo all'interno di un inno molto solenne che vuol parlare di un Essere infinitamente più importante di un uomo, il Lògos (logos), di cui si afferma che addirittura è uguale a Dio. E questo crea una certa sproporzione. Ciò ha fatto sorgere l'ipotesi che i passi riguardanti il Battista siano delle aggiunte, probabilmente dallo stesso Evangelista, fatte in epoche successive alla prima stesura. Vi sono anche altri passi che sembrano aggiunte chiarificatrici.

GV 1,11 "Venne fra la sua gente ma i suoi non l'hanno accolto"

L'espressione "i suoi" indica gli Ebrei: ma i primi cristiani erano Ebrei e l'hanno accolto. Allora subito si precisa che:

GV 1,12-13 "A quanti però l'hanno accolto ha dato il potere di diventare Figli di Dio. A quelli che credono nel suo nome; perchè questi non da sangue, ma da Dio sono stati generati"

Si ha quindi l'impressione che questi versetti vogliano essere esplicativi per evitare possibili equivoci e che, chi le ha effettuate, è intervenuto allorchè si presenta il problema di confrontare la posizione dei Cristiani con quella degli Ebrei. Questo intento risulta evidente.

Cominciamo la lettura:

GV 1,1 "In principio era il Verbo, e il Verbo era presso Dio, e il Verbo era Dio"

Questo versetto è da tutti riconosciuto come di grande elevatezza.

Analizziamo il significato dell'espressione "In principio". La costruzione grammaticale greca utilizzata per esprimere "In principio" è "en archè" (en arch); per correttezza sintattica dovrebbe esserci l'articolo: "en te archè" (en te arch), cioè "Nel principio". Molti esegeti hanno osservato che l'articolo non è stato messo di proposito perchè tale espressione vuole alludere alla stessa parola che si adopera all'inizio della Genesi per dire "In principio". Nella Genesi "In principio" è scritto barescít, ebraico, che in questo caso ha la stessa costruzione del greco. La conclusione è che chi ha cominciato il quarto Vangelo ha voluto iniziare ripetendo in greco la stessa parola che c'è in ebraico nella Genesi. La Genesi inizia con:

GN 1,1 "In principio Dio creò il cielo e la terra..."

il Vangelo di Giovanni inizia con:

GV 1,1 "In principio era il Lògos"

Si vuole allora creare un'identità temporale fra le due situazioni e dire: "In principio, quando Dio creava il mondo, il Lògos era".

L'espressione "En archè" significa l'inizio del cielo e della terra, il punto di partenza dello spazio e del tempo, l'inizio del mondo. Allora possiamo interpretare la frase: Quando Dio faceva il mondo, quando ebbe inizio il nostro mondo per opera di Dio, il Lògos era. Il verbo utilizzato per dire "era" è "en", l'imperfetto che in greco indica permanenza, durata. In italiano possiamo renderlo inserendo un "già": Quando il mondo fu fatto, il Lògos già era. Si afferma l'anteriorità del Lògos alla creazione.

Il termine lògos letteralmente vuol dire "parola". Ma nel mondo greco voleva dire anche "pensiero"; nel linguaggio degli stoici era usato per indicare il "pensiero divino" che è impresso nel mondo e lo governa, che si riflette poi anche nel pensiero degli uomini dando loro la possibilità di conoscere l'ordine del mondo. Il termine lògos è anche inteso nel mondo greco come "legge che regola l'universo", "principio generale" dell'unità del cosmo, "anima che rende vivo il tutto". Grazie al Lògos l'universo è come un grande organismo; e nell'uomo si manifesta come "ragione".

Nel mondo ebraico invece il Lògos è lo strumento con cui Dio agisce nel mondo ed in particolare sul popolo di Israele rendendolo protagonista di quel dialogo che è la storia della salvezza. Il lògos, la "parola", allorchè si rivolge al mondo ebraico, Mosè ed i profeti, diventa sapienza elargita, rivelazione, messaggio, comando, legge, ma anche forza ed energia vitale. Giovanni quindi, quando utilizza la parola lògos intende riferirsi ad entrambe le interpretazioni, vuol far incontrare due mondi: l'ebraico, dove la parola lògos significava "la parola di Dio che si trasmette", la sapienza elargita da Dio al suo popolo, i comandamenti, la legge; ed il greco, dove Lògos significava l'ordine del mondo, la mente, il discorso.

Ricapitolando, la frase intende esprimere che: "Quando ebbe origine il mondo c'era il pensiero di Dio che governa il mondo, la legge che regola l'universo, il pensiero che si trasmetterà più tardi al popolo eletto e agli uomini. Quando ebbe origine il mondo c'era come elemento costante e rassicurante il pensiero divino, l'ordine, una forza, un'energia, il Lògos". La parola lògos si adattava sia alla visione greca sia a quella ebraica, andava bene per entrambi i mondi. Traspare allora l'intento ecumenico (oicoumenicos = "universale") dell'evangelista: l'autore vuol riferirsi sia al Lògos degli stoici sia al Lògos degli ebrei.

Vi è poi un'altra considerazione: nella cultura ebraica di origine semitica questo termine traduceva il corrispondente ebraico tabar che significa "parola". In questa cultura la "parola" è sempre considerata come efficace, non è solo una semplice convenzione artificiale per riuscire ad esprimere dei contenuti concettuali o di pensiero, ma è una forza che produce una realtà, tanto è vero che nella lingua ebraica il termine tabar traduce sia "parola" che "fatto". A Geremia, Dio dice:

GER 23,29 "La mia parola non è forse come fuoco, come martello che spacca la roccia ?"

E quando l'Angelo che appare alla Madonna dice: "Quia non est impossibile apus Deum omne verbum" vuol dire che non è impossibile presso Dio alcun fatto. Ad Isaia, Dio dice:

IS 45 "Come la pioggia, la neve non scendono senza aver portato frutto, così la mia parola"

L'identità fra "parola" e "fatto" indica che la "parola" di Dio è anche "fatto". Dio dice e le cose avvengono; chiama, e le cose sono. Questa è la cultura ebraica. Per la cultura ebraica ad esempio la maledizione lanciata è un male in atto, non si può più ritirare. Colui alla quale la maledizione è destinata può solo pregare Dio che la rimandi su coloro che la hanno inviata. La parola ha una forza, proporzionale al potere di chi la proferisce. Una persona potente, un re, non ha bisogno di agire direttamente: è sufficiente che dia un ordine, un comando perchè chi sta sotto di lui, gli esecutori realizzino il suo volere. Il suo potere si esprime attraverso la "parola" e l'opera dei servi. Ora Dio ha il massimo potere. La sua parola diventa direttamente forza creatrice e generatrice. Allora "In principio era la Parola" per l'ebreo vuol dire "In principio, quando il mondo fu fatto, esisteva già la forza che fa succedere gli eventi". Per il greco "In principio, quando il mondo fu fatto, esisteva la ragione, la legge che dà consistenza e coesione all'universo".

Passiamo ora alla seconda frase:

GV 1,1 "e il Verbo era presso Dio"

La congiunzione "e" usata è kaì (kai) ed è una congiunzione con senso intensivo, equivale cioè al nostro "ed anche", "e poi".

La Parola non è un costitutivo del mondo, è una realtà che pur interessando il mondo appartiene alla sfera divina. Il "presso Dio" in greco è scritto con pròs (pros) e l'accusativo, che indica movimento, che non indica una situazione statica, "fermo presso Dio". Non è stato usato parà, che indica uno "stare accanto", ma pròs che esprime una vicinanza più intima (che però non è fusione), rivolto verso Dio, in relazione a Dio. Nei Proverbi, quando si parla della Sapienza, di lei si dice:

PRV 8,22 "All'inizio il Signore mi ha generata, primizia della sua attività, origine delle sue opere, ... Io ero accanto a lui come bambino ed ero la sua gioia quotidiana, alla sua presenza, mi divertivo di continuo".

Vi è quindi identità fra Lògos e Sapienza.

Vi è poi un'altra particolarità linguistica in "presso Dio": la parola "Dio" è scritta con l'articolo ton Teon (ton Teon), "il Dio", che indica il Dio degli Ebrei, Jahvè. In greco quando si intende dire il "Dio vero", si adopera sempre l'articolo. Quindi la frase vuol dire "Il Lògos era in tensione verso il Dio vero". Nel versetto precedentemente citato, la Sapienza dice:

PRV 8,22 "Io ero accanto a lui come bambino ed ero la sua gioia quotidiana, alla sua presenza, mi divertivo di continuo"

Ecco la vicinanza dinamica, non immobile, della Sapienza, del Lògos con Dio.

In crescendo, la terza affermazione:

GV 1,1 "e il Verbo era Dio"

Questa frase afferma l'identità fra Lògos e Teòs. Ma qui, al contrario dell'affermazione precedente, Teòs non è preceduto dall'articolo. In greco i sostantivi senza articolo stanno ad indicare qualità, in questo caso sta ad indicare la natura divina. Giovanni allora ha la raffinatezza di utilizzare la parola Teòs con l'articolo per riferirsi al Dio Vero (il Padre) e senza articolo per riferirsi al Lògos. Così afferma che il Lògos è un'entità divina, ma non è il solo ad averla ed è distinta dal Dio Vero. è nello stesso tempo identico a Dio e distinto da Lui. Dio è O Teòs, il Lògos è Teòs .

GV 1,2 "Egli era in principio presso Dio"

Il versetto due ricapitola ciò che si è detto finora, chiude il discorso riprendendo tutti gli elementi essenziali: Egli (il Lògos) era (permanenza) in principio (all'origine della creazione) presso Dio (rivolto verso Dio). Questo versetto fa anche da passaggio al discorso che segue, in cui si comincia a parlare dell'effetto del Lògos nel mondo:

GV 1,3 "Tutto è stato fatto per mezzo di lui ..."

In greco "tutto" sta a significare "tutte le singole cose", "ogni cosa". L'espressione "è stato fatto" in greco è riportata con egèneto (egeneto) che significa letteralmente "nascere", "divenire", ed è lo stesso verbo usato in Genesi 1,1 per descrivere la creazione nei vari giorni. Egèneto in greco è un aoristo complessivo ("indefinito") che indica un'azione che può abbracciare anche un tempo molto lungo purchè tale periodo venga considerato un tutt'uno, un unico blocco.

L'espressione "per mezzo" non ci fa capire in che modo "tutto è stato fatto". Il "per mezzo" può essere tradotto "attraverso": in questo caso il Lògos è ridotto a puro strumento esecutivo materiale. Ma può essere tradotto anche in modo che il Lògos venga visto come intelligenza animata. Quindi il "per mezzo" è una metafora molto ampia che concretamente non spiega nulla.

Poi vi è di nuovo una ripetizione, che in ebraico è detta parallelismo sintetico:

GV 1,3 "...e senza di lui niente è stato fatto"

Si ribadisce la stessa cosa aggiungendo un piccolo particolare. Il "senza" dovrebbe essere interpretato come: "indipendentemente da Lui". Cioè tutto quello che esiste passa attraverso un'opera del Lògos, che non è precisata quale sia, ed è in contatto con il Lògos.

Il versetto successivo è traducibile in due modi:

GV 1,4 "Tutto ciò che esiste, era vita in Lui"

oppure

GV 1,4 "Tutto ciò che esiste in Lui, era vita"

La parola greca usata qui per dire "vita", è Zoè (Zwh) ed è usata senza articolo: allora sappiamo che in greco si vuol mettere in risalto la natura e la qualità del nome usato. In greco vi è un'altra parola per dire vita, che è Bios (Bios). Giovanni usa queste due parole con significati differenti: Bios significa la vita fisica degli animali; Zoè invece significa la "vita divina", la "vera vita", la "vita eterna". Zoè è la vita che si ha mangiando il corpo e il sangue di Cristo ed ha in Giovanni sempre un senso teologico. Nel linguaggio dell'AT si dice che Dio vive: attribuendo al Lògos la "vita", senza articolo e quindi presa in quanto tale, equivale a dire che è "entità divina". Allora la prima traduzione significa: "Tutto ciò che è creato, acquista vita o senso soltanto nel Lògos".

La seconda traduzione significa: "Tutto ciò che fu fatto nel Lògos, era vita (eterna)". Questa traduzione sembra voler dire che quando fu creato il mondo anche nel Lògos fu creato qualcosa. In altre parole anche nel Lògos ci fu qualcosa di nuovo. E questo qualcosa apparteneva non a ciò che da sempre "era", ma a ciò che "fu fatto". è come se Giovanni volesse già qui anticipare l'affermazione che è nel momento stesso della creazione che il Lògos prende in sè, assume in sè, qualcosa che appartiene alla sfera del creato. E un qualcosa che precede e prelude l'Incarnazione. Al versetto 14 si dirà che "il Lògos si fece carne", divenne un singolo uomo, ma l'autore tiene a specificare che non è quella la prima volta che il Lògos prende su di sè un elemento del creato: questo era già avvenuto al momento della creazione.

Questa interpretazione, sebbene molto interessante, è fragilissima poichè si basa su una scelta di punteggiatura che non è attestata dalla maggioranza dei codici e delle tradizioni. Inoltre il Figlio, Colui che ci ha parlato, non è il Verbo Eterno, ma è l'Uomo; perciò come si fa a dire che Dio per mezzo di Gesù Uomo ha fatto tutte le cose ? Nel Lògos si deve ipotizzare una pre-umanità che c'è dal momento stesso della creazione. Si aggiunge:

GV 1,4 "E la vita era la luce degli uomini"

La vita divina è la luce degli uomini. La metafora della luce sta ad indicare la capacità per gli uomini di poter conoscere e di capire, è cioè un aiuto intellettuale. Il Lògos è Zoè, vita divina, vita senza limiti, che per gli uomini è luce, aiuto per la mente.

GV 1,5 " E la luce risplende fra le tenebre, ma le tenebre non l'hanno accolta"

La vita eterna è la luce degli uomini e questa luce splende là dove invece c'è l'oscurità dell'ignoranza. L'ignoranza degli uomini non ha soffocato questa luce, "le tenebre non l'hanno sopraffatta".

GV 1,6 "E venne un uomo mandato da Dio il cui nome era Giovanni."

Si passa ora alla parte del Prologo che parla di Giovanni Battista. Questi versetti probabilmente polemizzano con una sopravvalutazione di Giovanni Battista, del quale si pensa che in alcuni circoli (forse anche cristiani) venisse paragonato a Gesù e addirittura considerato come il Messìa. Allora, o l'evangelista stesso in una seconda revisione, o l'ultimo redattore, introdussero qui questa precisazione, richiamata dal termine "luce". E allora si spiega che:

GV 1,7-8 "Questi venne come testimone per rendere testimonianza alla Luce, perchè tutti credessero per mezzo di lui. Egli non era la Luce; ma venne per rendere testimonianza alla Luce."

È una piccola parentesi che turba l'andamento poetico dell'inno iniziale, il quale non sembra volersi occupare della particolarità di un uomo venuto a rendere testimonianza alla Luce, ma vuole continuare il suo discorso sul Lògos di Dio. Tale discorso continua al versetto 9:

GV 1,9 "Veniva nel mondo la Luce vera, quella che illumina ogni uomo."

Qui vi è una difficoltà di traduzione. Infatti, secondo la costruzione greca, si potrebbe tradurre sia "la Luce vera, quella che illumina ogni uomo, stava venendo nel mondo", sia "la Luce vera che illumina ogni uomo che viene nel mondo". Allora l'atto di venire nel mondo potrebbe essere attribuito sia alla "Luce" che ad "ogni uomo". In greco l'aggettivo "vera" ha due forme: alezinòs (aleqinos) e alezès (aleqhs). L'evangelista le utilizza con due significati differenti. Usa alezès per significare "vero" contrapposto a "falso". Usa alezinòs per significare "veramente efficace" contrapposto a "inefficace" o "appartenente al mondo della Verità Divina" contrapposto "al mondo parziale delle verità create". Allora, la "Luce vera" non è contrapposta ad una "luce falsa", ma piuttosto ad una "Luce efficace" o "Luce divina".

Nel versetto 10 la parola "mondo" compare tre volte :

GV 1,10 "Era nel mondo, il mondo fu fatto per mezzo di Lui, ma il mondo non lo riconobbe"

La prima e seconda citazione di "mondo" indica l'universo creato, la terza indica il mondo degli uomini.

GV 1,11 "Venne fra la sua gente, ma i suoi non l'hanno accolto."

Il pensiero di Giovanni scende verso maggiori particolari: dal cosmo al mondo degli uomini, al mondo ebraico. Qualche commentatore però non accetta che il versetto 11 si riferisca agli ebrei, ma a tutti gli uomini. Sembra però un tentativo di escludere un'asperità contro gli Ebrei di cui però il Vangelo di Giovanni è pieno. Anzi Giovanni identifica la categoria degli Ebrei come simbolo per "non credenti"; quando dice "i Giudei", vuol dire gli "increduli". Se però nel versetto 11 si vede il parallelismo sintetico, il versetto 10 e l'11 dicono la stessa cosa, sebbene in maniera differente: quindi la "sua gente" sono il "mondo". Tra l'altro il testo ebraico non dice "gente", ma dice "venne fra le sue cose" poichè c'è scritto eìs tá itia, (eis ta idia) "le proprie cose", che vuol dire "venne in casa propria".

GV 1,12-13 "A quanti però l'hanno accolto ha dato il potere di diventare Figli di Dio. A quelli che credono nel suo nome; perchè questi non da sangue, nè da volontà di carne, nè da volontà di uomo, ma da Dio sono stati generati"

La parola "sangue" sta per "sacrifici cruenti" che nell'AT e fra i pagani si ritenevano capaci di ristabilire l'amicizia con Dio. Il termine greco usato per "volontà" significa sia "volontà" che "ordinamento". Così "volontà di carne" allude alla volontà umana, alla Legge di Mosè "Volontà di uomo" allude ad un ordinamento superiore, filosofico. Queste tre espressioni sono in crescendo.

Questi versetti, in definitiva, dicono che non è vero che tutti "non l'hanno accolto" ma che a chi l'ha accolto ha dato il potere di diventare "figlio di Dio", e spiega cosa vuol dire "figlio di Dio". è una polemica velata con gli Ebrei che credono di essere figli di Dio perchè discendenti di Abramo e osservanti della Legge di Mosè. Qui invece si dice che ciò che rende figli di Dio, non viene dalla semplice nascita carnale, nè dall'appartenenza ad un popolo, ma deriva dal fatto di essere "generati da Dio", una nascita metaforica, spirituale, voluta da Dio come nel Battesimo. Per comprendere meglio il concetto "diventare figli di Dio" si può fare l'esempio dell'innamoramento: non è la persona che si innamora che decide di voler amare l'altra; ma è l'altra persona che, con la sua bellezza, con la sua presenza "attira a sè " l'altro. è un'attrazione non voluta da chi la subisce. Così per l'essere figlio di Dio: si è attratti dalla sua presenza e lo si segue.

GV 1,14 "E il Verbo si fece carne ..."

Dopo essere stata usata per tre volte nel primo versetto del Prologo, la parola Lògos rimane sottintesa per tutto il resto del discorso fino a ricomparire qui con effetto stupendo. In greco c'è scritto ò lògos sàrks eghèneto, (o logos sarx egeneto) cioè "il Lògos carne diventò". La vicinanza fra le parole Lògos, "onnipotenza", e Sàrks, "debolezza", dà rilievo al verbo "diventare"; i due estremi si toccano: è il senso dell'incarnazione.

GV 1,14 "... ed abitò in mezzo a noi .."

Il verbo usato per "abitare" è "si attendò". Questa scelta probabilmente non vuole riferirsi alla precarietà della condizione umana, ma al fatto che nel Lògos incarnato si verifica quello che era avvenuto nella Tenda dell'Incontro (Esodo 27,21; 28,43) nell'accampamento degli Ebrei, nella quale si manifestava la Gloria del Signore. Infatti prosegue:

GV 1,14 "... e noi abbiamo visto la sua gloria."

"Noi" si riferisce a Giovanni e i discepoli. Qui è fondamentale il verbo usato per "abbiamo visto": eteasàmeta, (eqeasameqa) significa "guardare", "contemplare", quindi indica testimoni oculari. Giovanni e i discepoli sono testimoni oculari della vita e della risurrezione di Gesù.

Il nuovo concetto che viene introdotto è quello della "Gloria". Secondo la cultura semitica la "Gloria" è la "potenza che si manifesta nell'azione", "la potenza che si manifesta in quanto tale". Nell'AT la "gloria di JHWH" (in ebraico Kebod JHWH) è lo splendore della luce di Dio che appare. Il profeta Ezechiele vede Dio apparire su un carro a forma di trono; la gloria è la "mobilità" di Dio che non è legato al tempio di Gerusalemme. Quindi: "Noi vedemmo la sua Gloria" potrebbe essere parafrasato "Noi vedemmo la sua potenza, la potenza di Colui che è amato e mandato dal Padre".

Il versetto si conclude con:

GV 1,14 "Gloria quale un figlio unico riceve dal padre, pieno di grazia e di verità."

"Figlio unico" è detto senza articolo per sottolineare quello che avviene solo nel caso di figlio unico: che cioè riceve dal padre tutti i beni da lui posseduti. Non sembra quindi che qui si voglia dire "l'unico figlio di Dio" come in GV 1,18 e 3,16.

La parola "grazia" sta ad indicare "il gratuito favore divino", "la misericordia".

Il termine "verità" significa "vera rivelazione", "rivelazione divina". Allora la frase non vuol dire "Uomo sapiente e intelligentissimo", ma "pieno di amore e di rivelazioni, di comunicazioni di cose che l'uomo non sa".

A proposito del "Verbo che si fece carne" bisogna esprimere questo concetto: la concezione giovannea secondo cui il Lògos di Dio che ha partecipato alla creazione, che è la massima grandezza che si può immaginare, che partecipa della stessa natura o vita divina, non si fece semplicemente "uomo", ma si fece realtà umana debole e mortale (questa è la "carne"), costituisce una chiave interpretativa di tutto il seguito del Vangelo di Giovanni. Questo Vangelo vuole appunto mostrare come nella umanità che è e appare, debole e mortale, del Figlio dell'uomo, occorre avere la sapienza e la fede per scorgere la Gloria del Lògos. Insieme alla frase "Il Verbo si fece carne" bisogna sempre aggiungere anche l'altra: "E noi vedemmo la sua Gloria". Tutto il Vangelo di Giovanni sembra impostato su questo criterio: la Gloria del Lògos, che è rivelatrice di Dio, si vede soltanto nella carne. Poichè il Lògos esisteva già nella sua vera natura e l'uomo non l'ha veduto, non vi è altro modo di scorgere la sua grandezza che nella carne che ha assunto. Ogni altra presenza del Lògos pur essendo luce per gli uomini, di fatto non è stata compresa. Allora l'unica via per riconoscere la presenza del Lògos è la carne di Gesù di Nazareth, cioè la debolezza umana di Gesù di Nazareth. Questa "carne" però è un segno oscuro perchè non tutti vedono nella carne di Gesù di Nazareth, la Gloria. I discepoli, i credenti, sono quelli che nella carne vedono la Gloria. Tutto il Vangelo dimostra come questo riconoscimento può avvenire e come quando invece non avviene, la Gloria non viene vista. Si leggerà allora di personaggi del giudaismo che, pur avendo incontrato Gesù, parlato con Lui, visto i miracoli o segni, non hanno visto la Gloria, cioè non hanno riconosciuto che li c'era la presenza del Lògos.

Appare allora anche un altro tema caratteristico dello stile giovanneo: la "discriminazione" degli uomini. Quando Gesù appare nel mondo, il mondo si divide fra quelli che vedono e credono, e quelli che pur vedendo non credono. Quindi Gesù viene a portare nel mondo una divisione.

Un'altra conseguenza della concezione teologica del Lògos nella carne è il "simbolismo giovanneo". Se nella carne si vede il Lògos allora vuol dire che tutto quello che Gesù fa materialmente ha sempre un doppio significato: c'è qualcosa che appare esteriormente e questo è il fatto reale; ma vi è sempre una verità più profonda. Il fatto è simbolo di qual cos'altro. Questa tendenza simbolica non è semplicemente una caratteristica stilistica puramente formale o esteriore, ma è la conseguenza della nozione fondamentale che "il Lògos si fece carne". Allora tutti i gesti fatti da Gesù sono sempre simboli di qualcosa d'altro.

Il discorso di Giovanni sul Lògos che si fece carne è la risposta al desiderio, da un lato dei Greci e dall'altro degli Ebrei, di arrivare ad entrare in contatto con il Lògos o Sapienza Eterna, o legge che regola l'universo, o senso ultimo delle cose. Il mondo greco quando cerca il senso ultimo delle cose lo cerca nelle "idee", al di là della materia e quindi al di là della carne. Il greco sostiene che il senso vero delle cose sta nella conoscenza di quegli ultimi principi che non sono incarnati nella materia, ma sono puramente ideali e astratti. La "verità" per il greco bisogna astrarla dalle cose e quindi, in senso metaforico, va cercata "in alto", al di sopra degli esseri terreni.

L'ebreo ha una posizione nettamente diversa. L'ebreo di per sè non cerca la "verità", cioè la conoscenza delle cose. L'ebreo cerca la realizzazione del progetto divino, si aspetta dei fatti che portino a compimento la promessa di vita che viene da Dio. Cerca l'eliminazione della morte e si aspetta tale evento per gli Ultimi tempi. Si aspetta un evento finale (escatologico) che l'apocalittica cerca di descrivere con fenomeni concomitanti, catastrofici, che porteranno alla pienezza della vita. Allora metaforicamente si può dire che l'ebreo cerca il senso ultimo delle cose "in avanti".

Giovanni con il Prologo risponde a tutte e due le esigenze: il Lògos che i Greci cercano nelle idee e gli Ebrei nel compimento futuro della storia, può essere visto nella vicenda umana di Gesù di Nazareth. Il Lògos che partecipò alla creazione, che è presente fin dall'inizio in tutti gli esseri, che senza del Quale nulla fu fatto, che dà senso a tutto, non è nel mondo delle idee nè nell'evento escatologico, ma nella carne di Gesù di Nazareth, a patto di saper vedere nelle apparenze esterne, materiali, la Gloria. L'evangelista vuol dire all'ebreo che non deve più aspettare il futuro, come se fosse soltanto l'evento finale quello che porta il senso ultimo delle cose. Il senso ultimo delle cose è già apparso e lo si può fare nostro, nella carne di Gesù di Nazareth. Il Lògos che si cerca "si è fatto carne e noi abbiamo visto", dice Giovanni. Se "abbiamo visto" allora non c'è da aspettare più nulla.

Alcuni esegeti hanno coniato il termine "escatologia realizzata" per indicare la posizione che l'evangelista assume nei confronti della mentalità ebraica, che invece affermava che tutto rimane provvisorio e non dato, fin quando non avviene quel fatto ultimo: solo allora si vedrà e si saprà. Invece l'evangelista sembra dire: "Già tutto è dato fin d'ora". Non tutti gli esegeti sono d'accordo nel dire che Giovanni presenta un'escatologia totalmente realizzata poichè ci sono dei punti nel suo Vangelo in cui ritorna il futuro. Tutto questo viene fuori da quell'affermazione fondamentale: "E il Verbo si fece carne".

In questa frase c'è un po' tutto per capire Giovanni: la visione dei segni, la discriminazione degli uomini, il simbolismo, la risposta alle attese degli Ebrei e dei pagani.

Lo studioso Dodd fa notare che quanto dice San Giovanni è lontano dagli interessi degli uomini d'oggi. L'uomo d'oggi non cerca più, almeno non nelle stesse proporzioni, il senso universale delle cose, non è più affannato nella ricerca del senso della vita. La cultura contemporanea è la cultura del lavoro, dell'impegno, dell'analisi del mondo attuale così com'è, per una sua moderata trasformazione in vista di un futuro vicino e immediato. L'ipotesi di una trasformazione operata da Dio suona come una vecchia concezione ebraica, che oggi non hanno più neppure gli Ebrei. Ed anche la vecchia mentalità greca è quasi totalmente scomparsa. Quindi bisogna riconoscere l'estraneità di questi testi rispetto alla cultura corrente. Certamente non è del tutto assente questo desiderio di comprendere il senso ultimo delle cose, ma è solo latente. Nel mondo antico invece, pare che fosse proprio il problema vissuto. La facile conversione di numerosi pagani sembra confermare questa ricerca di chiarificazione delle cose. Ma dall'Illuminismo in poi questa necessità è scomparsa poichè l'uomo europeo è stato educato ad una limitazione pragmatica delle sue aspirazioni e dei suoi desideri, cioè è stato educato al "sano realismo", di occuparsi dell'avvenire ma non all'avvenire utopico.